Se la prima incarna la forza, l’afflato vitale che esplode
caoticamente come un getto energetico, la seconda nomina la forma, l’ordine che
plasma la vita e dona all’energia una figura riconoscibile e un’armonica
compostezza. Se il dionisiaco ha bisogno dell’apollineo, senza il quale non
sarebbe che mera spinta priva di forma, una deflagrazione disordinata priva di
equilibrio, l’apollineo ha bisogno del
dionisiaco, senza il quale non sarebbe che forma inerte, un guscio vuoto
disertato dalla vita.
Nelle opere di Carlos
Orellana, la fusione di queste due istanze si traduce nella sintesi tra un
cromatismo dionisiaco, che richiama forze telluriche e vitalistiche, e una
raffigurazione apollinea permeata di traiettorie, articolazioni, linee
direttive, persino di geometrie, che lasciano intravedere un ordine sorgivo,
una forma in via di configurazione.
L’utilizzo del rosso, ad esempio, rimanda a
una dimensione sanguigna, palpitante, incandescente, mentre le linee in cui
quella dimensione vitale si articola rimandano una fisionomia nascente:
qualcosa prende forma.
È ciò che si può vedere
ad esempio in Tempo, dove l’ordine
emerge in luce dal caos oscuro grazie a una rete di linee perpendicolari che
sono nello stesso tempo dei graffi e una griglia. Sono dei graffi poiché, come
Nietzsche insegna, la vita, nel suo dionisiaco ribollire, sa essere anche terribile
e dolorosa. Ma sono poi proprio questi graffi a costituire una traccia
d’ordine, uno schema apollineo nascente, una griglia che incanala il caos e lo
mette in figura donando rappresentazione a ciò che nel suo insorgere è ancora
irrappresentabile. È cioè il dolore a insegnare e a dare forma alla vita, a
darle un senso, anche inteso come direzione.
Nei quadri di Orellana la
forma apollinea non arriva però mai a esaurire la forza dionisiaca: s’intravede
sempre il battito vitale dietro e dentro ogni tratto. Le figure non si
esauriscono in se stesse, non restano inerti, sembrano piuttosto fuggire verso
altre forme, altre articolazioni, altre possibilità di rappresentazione,
alludendo a un processo che non è mai concluso, che prosegue al di là della
cornice, nell’occhio dello spettatore. Prima ancora che questa o quella figura,
ciò che la tela mostra è allora il processo e il transito in cui ogni immagine
prende forma per poi tramontare e originare altre possibili configurazioni.